Ventoso il monte e l’animo
Tra le domande che molti appassionati di montagna si pongono, ricorre spesso quella sulla nascita dell’alpinismo. Chi è stata la prima persona che ha deciso di raggiungere una vetta? Di sfidare l’ignoto? Di guardare il mondo circostante da un più elevato punto di vista? E perché l’ha fatto? Che cosa ha ottenuto, o maturato, o raccontato, o nascosto, o imparato, o tramandato, da quella scelta individuale? Oppure c’è stata in un tempo a noi ignota un’impresa collettiva? E perché non ce ne è arrivata traccia?
Tra queste, e tra tante altre domande che si accavallano, rimane da individuare il rapporto tra il fare e il dire, tra l’esperienza effettuata e la tradizione orale, o gli scritti, per tramandarla; sempre che l’esperienza sia stata considerata degna di essere raccontata.
Ci conforta allora sapere che a inaugurare (o quasi) la narrazione di una esperienza alpinistica portata a termine, sia stato uno dei maggiori scrittori della letteratura europea: Francesco Petrarca.
In attesa che qualche persona voglia approfondire l’argomento, come benvenuto sviluppo (o critica) di questo scritto, ecco il racconto dell’esperienza di Petrarca, che prende spunto proprio da una sua lettera.
Aveva 31 anni Francesco Petrarca quando, nella pianura alla base del Mont Ventoux, fissava a lungo, intensamente, la sua lontana cima. Correva l’anno 1336.
Il Monte Ventoso (chiamiamolo all’italiana) è un massiccio pietroso che si erge isolato in Provenza ed è quindi molto esposto ai venti, in particolare il Mistral, che soffia da settentrione. Da qui, probabilmente, il nome, anche se in altre occasioni è stato chiamato Monte Calvo o Gigante della Provenza.
In quegli anni Francesco Petrarca viveva con la famiglia in un villaggio, Carpentras, vicino ad Avignone. Per accondiscendere al volere del padre, era poi andato a Montpellier, col fratello Gherardo, e in seguito a Bologna, a studiare diritto. La morte del padre lo riporta ad Avignone, dove abbandona gli studi giuridici per potersi dedicare interamente allo studio dei classici e alla poesia. Negli anni successivi si susseguono viaggi in varie località della Francia, nelle Fiandre e in Germania, avendo sempre la non amata Avignone come città di riferimento.
Senza entrare nella biografia di Petrarca, andiamo invece alla lettera, scritta nel 1336 e indirizzata all’amico e frate agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro. Dionigi, tempo addietro gli aveva regalato la copia di un libro che aveva influenzato profondamente il nostro autore: le Confessioni di sant’Agostino. Su questo tema torneremo.
Ora andiamo prima alla lettera, scritta in latino, dove Petrarca racconta la sua avventura sul Monte Ventoso. Quella montagna esercitava su di lui un’attrazione insolita, invincibile: “Questo monte, che a bell'agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi”. Un’attrazione tale da spingerlo a compiere un’impresa decisamente insolita, anzi, unica per quei tempi: raggiungerne la cima.
Va ricordato che la passione di Petrarca per la natura, per i luoghi solitari e selvaggi emerge anche in alcune sue poesie, tra cui la canzone 129 del Canzoniere: “Di pensier in pensier, di monte in monte” dove alla fine racconta di voler salire sul "più expedito giogo" per ammirare il paesaggio sottostante e riflettere, senza persone intorno, sul suo contrastato amore per Laura:
(…) Per alti monti et per selve aspre trovo
qualche riposo: ogni habitato loco
è nemico mortal degli occhi miei.
(…) Ove d’altra montagna ombra non tocchi,
verso ’l maggiore e ’l piú expedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso
(Versi 14/16 e 53/55)
Per Petrarca, presa la decisione di raggiungere la vetta della montagna, e scelto il versante settentrionale da cui salire, si poneva il problema della persona con cui tentare l’impresa. Una persona che lo aiutasse a superare le previste difficoltà e con cui condividere la nuova esperienza. In una delle sue “Lettere familiari” (traduzione del Carducci) scrive: “L’uno mi parea troppo posato, troppo vivo l’altro: questo un po’ lento, quello tutta furia; chi un sornione, e chi un mattacchione; chi scapato, chi troppo più aggiustato che io non volessi; di questo mi spiaceva la taciturnità, di quello la petulanza; di alcuno la pesantezza, la pancia, la dappocaggine, d’alcun altro l’umor ciarliero, la magrezza e la debolezza, l’ardenza curiosa. Difetti ai quali, in viaggio, non si regge”.
Allora che fa Francesco Petrarca? Va col fratello Gherardo, di tre anni più giovane. Ecco come racconta l’inizio della loro impresa: “Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno e oggi finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte infatti, sassosa qual è, è quanto mai scoscesa e quasi inaccessibile; ma ben disse il poeta che “l’ostinata fatica vince ogni cosa”. La lunghezza del giorno, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore e l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo”.
Sono stati i primi a salire fino ai 1912 metri della vetta? Era allora che, come alcuni sostengono, nasceva l’alpinismo?
Ma l’alpinismo ha forse una data di nascita? La realtà è che d’una infinità di persone la storia non ci ha lasciato neppure il nome. La storia viaggia alto, e anche la breve storia dell’alpinismo considera solo chi à arrivato in alto. Cima, o impresa, o pensiero che sia.
Va poi considerato il fatto che le parti sommitali delle montagne, difficili o faticose da raggiungere, caratterizzate da un clima severo, da scarsa vegetazione e quindi poco adatte al pascolo e inadatte alle coltivazioni, non attiravano di certo le genti che vivevano nelle valli o lungo i versanti. Se vi salivano, era proprio per verificare se per caso esistesse qualche buon motivo per farlo. Il risultato: una delusione, per chi era poco avvezzo a percepire il senso della meraviglia, a non apprezzare i vasti panorami, a non sentirsi realizzato, o orgoglioso, per la meta raggiunta. E lo spirito romantico si doveva imporre solo secoli dopo i due Petrarca.
Un fortuito incontro avrebbe potuto, proprio a questo riguardo, scoraggiare i due fratelli. La sua lettera, scritta in latino a Dionigi di Borgo San Sepolcro, continua infatti così: “In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci a salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito fino sulla vetta ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avessero ripetuto il tentativo.”
Incuranti dell’avvertimento, i fratelli continuano la salita. “Mentre ci gridava queste cose, a noi - così sono i giovani, restii ad ogni consiglio - il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell'inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po' tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto”.
Il giovane Gherardo sale più velocemente di Francesco, che inizia a sentire la fatica: “Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto”.
Le soste per rifiatare si fanno più frequenti e vengono occupate da Francesco con pensieri, ricordi e riflessioni. Ispirato dalle difficoltà che incontra, annota: “La natura non si sottomette alla volontà umana”.
Giunto alla fine in vetta, osserva il vastissimo panorama e poi prende dalla bisaccia il libro di Sant’Agostino. Nella lettera scrive: “Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l'anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell'autore e di chi me l'ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d'infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott'occhio”. Si sofferma su una frase: "Et eunt homines admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et occeani ambitum et giros siderum, et relinquunt se ipsos. Per comodità del lettore, eccola tradotta: “E gli uomini vanno ad ammirare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi”.
Allora il pensiero corre agli anni passati, all’abbandono degli studi giuridici a Bologna, al ritorno in Francia, ai tanti cambiamenti avvenuti, alle “trascorse tempeste” che ancora non se la sente di rievocare.
“Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell'ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l'anima, di fronte alla cui grandezza non c'è nulla di grande”.
La salita al monte Ventoso diventa cosi l’allegoria di un cammino spirituale compiuto, o ancora da completare, da parte del poeta. Una persona ancora combattuta tra l’anelito al divino e le promesse, le lusinghe, della vita terrena. L’ascesa alla cima assume l’immagine di un faticoso percorso interiore, considerato necessario in un momento, un’età, che rappresenta una chiave di volta necessaria per dare senso e contenuto alla vita. La cima, la lontananza dalla pianura da cui era venuto e dove scorre la vita umana, il senso di distacco dalla Terra e di avvicinamento al Cielo: tutto questo ispira in lui la necessità di avvicinarsi al divino.
La lettera di Petrarca non si sofferma su quanto era seguito all’arrivo sulla vetta del Monte Ventoso e alla meditazione che ne era stata ispirata. Eppure ogni salita ad una cima è necessariamente seguita dal ritorno a valle. L’allegoria, come ritorno alle cose terrene, non si ripete. Umano. Troppo umano, per quei tempi.
Gabriele Zerbi
Le citazioni della lettera di Petrarca a Dionigi di Borgo San Sepolcro sono tratte dall’edizione di Laterza con le traduzioni di G: Bellini e G:Mazzoni
Pubblicato il 24/08/2022